Dalle Ande all’Amazzonia: i popoli indigeni alla COP30 per difendere la foresta

Un pellegrinaggio che è politica, cultura e cura del mondo

Da montagne di pietra a fiumi immensi, la presenza dei popoli indigeni alla COP30 è il risultato di mesi di preparazione, assemblee comunitarie, accordi tra comunità diverse e di un’antica responsabilità: prendersi cura dei territori che custodiscono. Non si tratta soltanto di arrivare a Belém per parlare; è una strategia collettiva che intreccia cosmologie, pratiche di gestione del territorio e rivendicazioni legali. I partecipanti non portano solo cartelli e discorsi, ma mappe tradotte, calendari agricoli, protocolli di custodia e proposte legislative elaborate nelle lingue native e adattate al linguaggio diplomatico delle Nazioni Unite.

Chi sono e cosa chiedono

La delegazione è eterogenea: anziani sapienti, giovani attivisti che parlano più lingue, donne leader che gestiscono progetti di agroforestry, e tecnici locali che sanno usare droni o app per il monitoraggio delle foreste. Le richieste sono chiare e tecniche: riconoscimento dei diritti territoriali senza condizioni; meccanismi finanziari che versino fondi direttamente alle organizzazioni comunitarie evitando passaggi intermedi che creano dispersione e corruzione; strumenti giuridici per fermare l’espansione delle attività estrattive e agricole su terre comunali; piani di ripristino guidati dalle conoscenze tradizionali.

Le proposte includono regimi di pagamento per servizi ecosistemici gestiti direttamente dalle comunità, contratti di conservazione che prevedano sanzioni per gli invasori illegali, e normative che obblighino le grandi catene di approvvigionamento ad escludere prodotti derivati da foreste degradate o rubate.

Pratiche indigene come tecnologia sociale

Nel linguaggio tecnico della COP30, le pratiche indigene appaiono spesso come "soluzioni basate sulla natura". Ma ridurle a una categoria astratta è un errore: sono tecnologie sociali complesse, costruite su decenni di osservazione e adattamento. L’agroforestazione che alterna specie alimentari a legname da riserva, i corridoi ecologici mantenuti da rotazioni rituali e la gestione comunitaria del fuoco per prevenire incendi catastrofici sono esempi pratici che dimostrano efficacia climatica e resilienza. Queste pratiche abbassano l’emissione netta della foresta, aumentano la capacità di stoccaggio del carbonio e mantengono la biodiversità funzionale.

Al tavolo negoziale, le comunità mostrano dati raccolti sul campo: mappe di deforestazione comparate nel tempo, registri di pesca sostenibile, testi di protocolli culturali che spiegano come gestire accessi e usi delle risorse. Questo approccio combina rigore empirico e autoregolazione sociale, un modello che può essere scalato senza perdere la sua essenza locale.

Tensioni e responsabilità istituzionali

La COP30 si svolge in un Paese che convive con contraddizioni: dichiarazioni pubbliche di protezione e politiche che, sul territorio, spesso favoriscono interessi estrattivi. La delegazione indigena ha documentato casi di violenza, criminalizzazione di leader e accelerazione di concessioni minerarie su terre non consultate. Mettere in contado queste evidenze davanti a una platea internazionale serve a due fini: creare pressione diplomatica e costruire alleanze transnazionali capaci di monitorare l’attuazione degli accordi.

I governi presenti sono chiamati a trasformare parole in procedure: catasti aggiornati e partecipativi, revisione delle concessioni alla luce del diritto internazionale dei popoli indigeni, clausole di non-regresso in qualsiasi nuovo accordo climatico che implichi uso del suolo. Gli organismi multilaterali devono garantire che i finanziamenti internazionali seguano criteri di responsabilità, trasparenza e controllo comunitario.

Strategie comunicative: dal racconto alla responsabilità economica

La narrazione che arriva dalle comunità non è fatta soltanto di denuncia; è una comunicazione strategica indirizzata a pubblici differenti: consumatori globali, investitori, ong, amministratori locali. La delegazione ha costruito messaggi che mostrano connessioni concrete tra i consumi lontani e la distruzione locale: tracciabilità dei prodotti, richieste di etichette "deforestation-free verified by community protocol", e proposte di certificazione comunitaria alternativa alle grandi certificazioni internazionali, spesso costose e poco accessibili.

A livello economico, le comunità chiedono modelli di partnership che rispettino la sovranità alimentare e la redistribuzione equa del valore. Vogliono contratti che proteggano fronti produttivi e paesaggi culturali, non accordi che trasferiscano rischi ambientali e sociali su soggetti fragili.

Verso pratiche di accountability e monitoraggio

Una delle innovazioni portate alla COP30 è il concetto di "monitoraggio partecipato": reti ibride dove strumenti tecnologici satelliti, sensori, app di map-making sono gestiti con protocolli condivisi e dati aperti che le comunità possano usare in tribunali, negoziati e campagne pubbliche. Questo crea un doppio effetto: riduce il divario informativo con attori potenti e rende più difficile la manipolazione dei dati sul territorio. Le comunità propongono inoltre meccanismi di terza parte per verificare l’applicazione delle misure di protezione, coinvolgendo università, centri di ricerca locali e reti internazionali.

Conclusione: ascoltare per trasformare

La presenza indigena alla COP30 è un punto di svolta se chi negozia accetta di spostare il baricentro: dalla centralità degli stati e dei mercati alla centralità delle pratiche di custodia territoriale. Non si tratta di una retorica romantica, ma di una richiesta pragmatica: riconoscere diritti, finanziare capacità operative locali, legare gli strumenti di mitigazione e adattamento al controllo sociale delle comunità. Dalle Ande all’Amazzonia, la posta in gioco è alta: la foresta non è solo habitat, è infrastruttura climatica e tessuto di vite. Le decisioni prese qui avranno conseguenze sulle stagioni, sulle economie locali e sulle possibilità di sopravvivenza culturale di intere popolazioni.

Se le istituzioni seguiranno le proposte concrete — catasti partecipativi, finanziamenti diretti, monitoraggio condiviso, clausole anti-impunità per gli invasori — allora la delegazione avrà trasformato un pellegrinaggio in un cambiamento duraturo. Il resto del mondo ha la responsabilità di ascoltare e agire, riconoscendo che proteggere la foresta significa proteggere noi stessi.

FAQ 1 — Chi sono i popoli indigeni partecipanti alla COP30 e da quali regioni arrivano ?

I delegati sono leader comunitari, anziani-sapienti, donne capogruppo, giovani attivisti e tecnici provenienti dalle Ande e dalle diverse aree dell’Amazzonia (Brasile, Ecuador, Colombia, Perù, Panama, Guatemala, Messico) oltre a comunità correlate come i quilombola; rappresentano territori custoditi da pratiche tradizionali di gestione del suolo e delle risorse naturali.

FAQ 2 — Quali richieste concrete portano alla COP30 e come vengono presentate

Chiedono riconoscimento giuridico dei territori ancestrali, finanziamenti diretti alle comunità, meccanismi vincolanti contro la deforestazione, il rispetto dell’autodeterminazione e l’inclusione delle pratiche tradizionali (agroforestry, monitoraggio partecipato) nei piani nazionali; presentano mappe, protocolli comunitari e dati di monitoraggio come evidenza nelle negoziazioni.

FAQ 3 — In che modo le proposte indigene migliorano la conservazione dell’Amazzonia e gli obiettivi climatici

Le pratiche comunitarie riducono la deforestazione, aumentano lo stoccaggio di carbonio, mantengono biodiversità e resilienza; il monitoraggio partecipato e i catasti aggiornati aumentano trasparenza e responsabilità, permettendo verifiche legali e valutazioni di impatto più efficaci per politiche climatiche e finanziamenti internazionali.